Tu sei qui: AttualitàCARRELLATA SUI MESTIERI SCOMPARSI
Inserito da (admin), mercoledì 28 febbraio 2018 23:24:26
da un post di Sigismondo Nastri Quando ero ragazzo, ad Amalfi, il mio barbiere era Vincenzo D’Alessandro, atranese. Operava in un locale, in via Pietro Capuano, che sembrava un mastrillo, tanto era piccolo. Eppure sulla porta aveva una vistosa tabella con la scritta "Salone". Se tu, entrando, eri un po’ distratto, rischiavi di andare a sbattere la fronte contro la parete dirimpetto. Confesso una mia ignoranza: ma perché le botteghe dei barbieri si chiamano "salone"? Il dizionario mi dà questo significato: "Locale ampio in cui opera un parrucchiere per uomo o signora oppure si praticano cure estetiche". Il "barbiere" di una volta è quello che Peppino De Filippo, nel film "Totò Peppino e i fuorilegge", definisce "missionario". In via di estinzione, come tanti altri mestieri. Una professione soppiantata dal progresso. Oggi amano chiamarsi parrucchiere per uomo, acconciatore, hair stylist, designer, scultore, architetto della chioma, poeta della ‘trico art’. Nel ricordo della mia infanzia, legata alla guerra, ci sono mestieri inimmaginabili oggi. ‘O ‘conciatiàne, ad esempio, qualcuno mi sa dire chi era? Era uno che, girando per le case, con un piccolo trapano e un sottile filo di ferro, aggiustava (cioè riassemblava) piatti, zuppiere e tegami di terracotta ridotti in frantumi. Conciatiàne, cioè aggiustategami: perché ‘o tiano era un utensile importante in cucina: il recipiente insuperabile per farci il ragù o per cuocerci i fagioli. A quel tempo era difficile che si buttasse qualcosa, se non era del tutto irrecuperabile. Oggi, se si spariglia un servizio, si va a comprarne un altro. Nei miei ricordi di bambino, ad Amalfi, al rione san Lorenzo, c'era Matalena 'a 'concatiane. ‘O ‘mpagliasegge reimpagliava la seduta di una seggiola, quando, danneggiata, non era più utilizzabile. Una volta le sedie impagliate erano in uso nelle case e soprattutto nelle chiese dove non esistevano ancora i banchi. Ammassate in fondo alla chiesa, bisognava pagare per potersene servire. ‘O schiattamuorte era definito il becchino, che, nei cimiteri, si occupava della sepoltura dei morti. Poi c’era ‘o ‘mbrellàro, capace di mettere a posto l’ombrello raddrizzando o sostituendo le stecche di metallo che s’erano deformate per un colpo di vento e di cucirci una pezza laddove s’era lacerato. Oggi, con gli ombrelli che si vendono a due-tre euro, una riparazione – se anche si trovasse uno capace di farla – costerebbe certamente di più. Ad Amalfi, per riparare gli ombrelli, ci si rivolgeva a Gigino 'o panzittone, 'mmiezo 'e Ferrare. Anche il mestiere dell’arrotino (‘o molafruòbbece) è diventato raro. Per rifare le lame di coltelli e forbici bisogna aspettare che passi l’auto con l’altoparlante che ti avvisa: "E’ arrivato l’arrotino". Incredibile, è sempre la stessa voce, la stessa auto, in qualunque parte d’Italia. Come se l’arrotino avesse il dono dell’ubiquità. E ’o acchiappacàne (l’accalappiacani)? Per noi ragazzi era uno spettacolo vederlo rincorrere le povere bestie che non sapevano dove ripararsi, fino a quando non venivano catturate da un orribile cappio. Era un mestiere pure quello, che dava da vivere. Devo aggiungere che, allora, di cani a scorazzare senza padroni per le vie ce n’erano tanti e, spesso, si rendevano pericolosi. Un altro personaggio che si vedeva girare frequentemente per le strade era ‘o bannetore, il banditore, utilizzato per comunicare ai cittadini annunci pubblici e privati: ad esempio, un guasto alla rete dell’acquedotto, la chiusura di una strada. O magari l’inaugurazione di una nuova attività commerciale o una vendita straordinaria di merce (mi viene a mente la carne "di bassa macelleria", che in tempi di magra, richiamava l’interesse di tanta gente). Per farsi sentire il banditore aveva un megafono e faceva precedere l’annuncio dal suono di una campanella o dal rullio di un tamburo. C’erano, però, mestieri che avevano un peso ben più rilevante nella vita sociale. ’O scarparo e ‘o solachianiello, il calzolaio e il ciabattino: qualcuno c’è ancora, per fortuna. Però una volta le scarpe le faceva ‘o scarparo, artigianalmente, prendendoti la misura del piede. Al solachianiello si ricorreva per risuolarle o a rifarci i tacchi. ’O cestàro (il cestaio). N’è rimasto uno, se non sbaglio, a Tramonti. Ricordo che fabbricava anche le scope di saggina (mica esistevano scope firmate, come oggi: Pippo, eccetera!). ’O ferraro, anzi ‘o mastoferraro, il fabbro: era l’artista del ferro, sempre a martellarlo rovente sulla forgia. Costruiva ringhiere, balaustre, spalliere per il letto. Bellissime. Un lavoro che s’è evoluto, lasciando ampio spazio a nuovi materiali, quali l’alluminio e pvc. Oggi, ' masteferraro è anche artista. E che artista! Faccio un nome: Erasmo Amato a Maiori. ‘O masterascio: cioè l’ebanista, il falegname: costruiva i mobili, utilizzando legno pregiato. Lo scolpiva, gli dava dignità di opera d’arte. Ora – in tempo di omologazione dei gusti, ma principalmente di scarse risorse - siamo tutti, più o meno, clienti dell’Ikea. Se si rompe una sedia, andiamo a comprarla lì. Cito Andrea 'e Mastonicola, ad Amalfi, e un ebanista di Minori, molto bravo, di cui mi sfugge il nome. ‘O ferracavallo, il maniscalco: ci si muoveva in carrozza e, quindi, c’erano i cavalli. Ora ci son rimasti pochi muli: non esiste più spazio per il lavoro del maniscalco, che è il calzolaio della razza equina. Qualche volta, sotto casa mia, a Casa Imperato, m’è capitato di vedere all’opera un maniscalco, sicuramente venuto da fuori. ’O cravonaro, il carbonaio: ebbe il colpo di grazia quando, con l’avvento delle bombole a gas, negli anni cinquanta, le vecchie care cucine maiolicate furono trasformate e il pregevole arredamento tradizionale fu sostituito da quegli orribili mobili detti all’americana, con lucidi pannelli di formica. ’O carcararo: Riempiva con la roccia calcarea dei grandi forni dai quali, dopo la cottura, veniva estratta la calce viva. Attività molto presente in Costiera, e soprattutto a Maiori, in cui erano maestri i fratelli Esposito. Ne resta memoria nei ruderi superstiti delle vecchie carcare. ‘O lampiunaro, quando ancora non c’era l’illuminazione elettrica, girava per la città, di sera, per accendere i lampioni a gas. Per questa operazione era munito di un lungo bastoneche aveva all’estremità una fiamma. La mattina, ovviamente, ripeteva il giro per lo spegnimento. ‘O matarazzaro girava per le case, quando era chiamato, per rifare i materassi. Questi erano imbottiti di lana di pecora grezza, che periodicamente doveva essere lavate e "allargata. Operazione, ovviamente, fatta a mano. ‘O monzù era nei secoli XVIII e XIX il cuciniere ingaggiato da famiglie nobili o benestanti. Con lo stesso nome furono poi chiamati i cuochi professionisti degli alberghi. ‘A nevajola: era la venditrice di neve ghiacciata. Di una, a Maiori, è ancora vivo il ricordo. ‘O pannazzaro era colui che girava per i vicoli e le strade per ritirare roba vecchia – stracci, tessuti e vestiti - in cambio di oggetti più utili per la casa. ‘O sanguettaro, di solito un barbiere (ricordo Nicola ' barbiere ad Amalfi), allevava sanguisughe, da utilizzare in caso di polmoniti, ictus e trombi. All’occorrenza, si recava in caso del malato e gliele applicava sul corpo per il salasso. ‘O sanzaro era un mediatore, che si occupava non solo di affittare case, ma anche di combinare matrimoni, di trovare occupazione alle lavoratrici domestiche. Di alcuni si conserva ancora memoria. Ad esempio, ‘O piezzo ad Amalfi. ’O stagnaro: realizzava contenitori di stagno, caldaie, pentole, casseruole, tinozze Poi lo stagno è stato soppiantato dall’alluminio e, quindi, dall’acciaio. ‘A serengara era una donna che, chiamata in casi di necessità, si recava al domicilio dei "pazienti" per praticare iniezioni intramuscolari. ‘A vammana era una donna, sicuramente esperta della materia, che aiutava a nascere i bambini, quando ancora le donne partorivano in casa. ‘O zarellaro era il merciaio, venditore di cotone, filo, fettucce, nastri e nastri, insomma di tutto ciò che serviva a chi era dedito a lavori di cucito e ricamo. L’ultimo zarellaro di Maiori, Agostino, ha chiuso i battenti della sua storica bottega il 31 dicembre 2017. ’O cusetore, il sarto, o la sarta: ti prendeva le misure, ti confezionava il vestito, oppure lo rivoltava se era vecchiotto, lo adattava da una persona all’altra modificandolo a seconda delle misure prese. Niente si gettava. In famiglia solo il primo figlio aveva il privilegio d’indossare abiti nuovi, che poi venivano utilizzati, con le dovute aggiustature, per il secondo, il terzo e così via. ’O cartaro: un mestiere antico, cancellato insieme alle cartiere dall’alluvione del 1954. L'indimenticabile don Nicola Milano, proprietario di cartiere, filantropo, storico della carta, amava definirsi semplicemente cartaro sul suo biglietto da visita. E potrei continuare citando ‘o sgrastapuorco, ‘a cazettara, ‘o centrellaro, e così via. Sul centrellaro, però, spendo una parola. Era quello che fabbricava le centrelle: chiodi a testa larga che si fissavano alla suola delle scarpe dei soldati per rallentarne il consumo e renderle adatte a camminare in luoghi impervi e sgarrupati. Scomparirà anche 'o furnaro, il fornaio, perché, prima o poi, saremo indotti, da una scaltra campagna pubblicitaria, a comprare sfilatini surgelati da far dorare nel forno a microonde. Avviene nelle grandi città. Lo fanno i supermercati. Il pane di una volta conservava il profumo delle fascine di leccino, con le quali si alimentava il forno. E non parlo, per carità di patria, di mestieri legati al mondo contadino. Come quello – faticoso, usurante - della trasportatrice di limoni, raccontato con tanta intensità drammatica in una poesia di Peppino Di Lieto e nel video realizzato da Giancarlo Barela: ‘E furmechelle. Offenderei la dignità di queste donne, alle quali bisognerebbe dedicare un museo. Anche quello di spruzzare il verderame sulle piante di limoni, con quel singolare apparecchio a manovella appeso dietro le spalle, era un mestiere diffuso e apprezzato. Il ricordo di queste attività (me ne sono sfuggite sicuramente tante altre) è destinato a perdersi. Eppure esse, insisto, hanno un importante valore storico, etnografico-antropologico e culturale, oltre che economico (perché hanno assicurato per lungo tempo la sopravvivenza a molte famiglie). Il progresso tecnologico, l’automatizzazione e la meccanizzazione dei cicli produttivi sono certamente alla base della loro scomparsa. La civiltà dell’informatica ci ha fatto perdere il piacere della manualità. Certo, ci ha rimesso la qualità della vita. Ma così va il mondo, così procede la storia dell’umanità. © Sigismondo Nastri Nella foto: Luigi Amarante, cestaio di Tramonti.
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